Eros e Psyche

Arte e Archeologia alleate per ricostruire la Storia dei luoghi.

Fino al 26 settembre 2021, su progetto di Renato Leotta, la mostra appena inaugurata Eros e Psyche, pensata per il borgo di Centuripe e il suo paesaggio, prende la forma di mostra diffusa, composta da immagini archeologiche e arcaiche, dislocate nel contesto rurale e urbano del borgo ennese. Il nome deriva dalla statuetta in terracotta di Eros e Psiche che si abbracciano (circa 200 -100 a.C), ritrovata a Centuripe e attualmente parte della collezione del British Museum.
Questo percorso museale en plein air è composto da manifesti che raffigurano reperti centuripini, facenti parte della collezione del British Museum. Si snoda fra Centuripe, Carcaci e Acquedotto Biscari, luoghi in provincia di Enna, collegati dalla SS575.

Come nasce il progetto

Dopo un periodo di ricerca sulla singolare manifattura centuripina e la storia complessa delle vicende archeologiche legate ad essa, Leotta ha raccolto immagini sufficienti a “contaminare” il paesaggio attuale nei luoghi che avevano ispirato i manufatti. Senza spirito rivendicativo, ma anzi con l’idea di creare un Museo temporaneo che interroga i luoghi sulla nascita di questi manufatti, giunti a noi come reperti archeologici di un sorprendente patrimonio culturale.
Questo progetto è una lezione di stile, visto che nel corso della storia, l’archeologia è stata spesso strumentalizzata per motivi di diplomazia culturale e come supporto a rivendicazioni. In questo caso l’intervento di Leotta propone invece una possibile forma di unione attraverso il tema della bellezza. È un abbraccio che fa eco alle vicende di Amore e Psyche, in bilico fra i caratteri dell’umano e del divino.

Una boccata d’Arte

Eros e Psyche è parte di Una Boccata d’Arte, un progetto di Fondazione Elpis, in collaborazione con Galleria Continua, che consente all’artista la più ampia libertà creativa e l’utilizzo di qualsiasi forma artistica, purché dialoghi con il paesaggio circostante e la sua storia.

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Il premio Lux 2021

Per il premio Lux, istituito dalla Comunità europea, tre film, scelti da una giuria fra i dieci più importanti film europei dell’anno, dovevano, per la prima volta quest’anno, essere visti e votati anche dai cittadini, in modo che il premio tenesse conto della Critica e del pubblico in egual misura.
In Italia, in questo disgraziato periodo, in cui i cinema sono stati sempre chiusi per più di un anno, siamo riusciti a vederne solo due, Corpus Christi e Collective. Due trame agli antipodi: nel primo si parla di religiosità, nel secondo di corruzione politica. Non certo due mondi contrapposti, il Bene e il Male. Tutt’altro. Nel primo vengono in luce i guasti della religione, nel secondo i guasti della politica. Nel primo si affronta il misticismo, nel secondo si descrive la corruzione e chi la combatte. Il primo è una fiction
che a tratti sembra un documentario, il secondo è un documentario, ma non lo diresti.

Corpus Christi

La visione di Corpus Christi ha un effetto allucinatorio. La descrizione del regista polacco, Jan Komasa, al suo secondo lungometraggio, è filtrata attraverso gli occhi di Daniel, il protagonista. Inizialmente preda di feroci abusi fisici, ordinati, durante il lavoro “riabilitativo”, da un capobanda nel riformatorio dove entrambi scontano la pena, Daniel non prova nemmeno a reagire. Nel suo delirio mistico probabilmente si identifica con l’agnello di Dio, la vittima sacrificale che toglie i peccati dal mondo. E fa il chierichetto delle messe penitenziarie, unico modo di tener fede all’aspirazione di diventare prete, che la sua fedina penale rende però irrealizzabile. È accusato di un delitto, pare senza prove. Durante un permesso lavorativo in un paese lontano dal riformatorio, viene scambiato per un prete e si trova addirittura a sostituire il parroco, per una concatenazione di eventi ai quali non riesce più a contrapporsi. Le mille incertezze iniziali vengono superate dalla forza che il ruolo sociale di prete gli conferisce. Da subito, però, gestisce il sacramento in modi anticonvenzionali, mutuati dall’ esperienza catartica che il prete addetto al riformatorio imprimeva alla pratica religiosa dei condannati. Daniel, che riceve dal bravo attore Bartosz Bielenia occhi profondi e stralunati, occhi sicuramente responsabili della violenza distruttiva del capobanda del riformatorio nei suoi confronti, nella sua veste di prete riesce in breve tempo a fare seguaci appassionati. Affronta di petto anche le visioni distorte di un gruppo di parrocchiani, autorizzati dal vecchio parroco ad ergersi a giudici di una concittadina. Col suo operato riesce a farla riammettere nella comunità, rendendole il diritto di seppellire il marito, morto in un incidente stradale, insieme con le altre vittime della stessa tragedia. Costretto poi dal Sindaco a benedire una sua nuova segheria, investimento che sfrutta il lavoro dei carcerati, Daniel fa inginocchiare nel fango tutti i convenuti in abito da cerimonia, all’esterno dell’edificio, pronunciando un duro discorso contro chi vive per accumulare soldi. Una sparata contro il potere politico, che vorrebbe usare il potere religioso per sdoganare lo sfruttamento come beneficenza. Il finale, contrariamente forse alle stesse intenzioni del regista, si può leggere, per un non credente, come un recupero, seppure In circostanze drammatiche, di un minimo di sanità mentale da parte di Daniel.

Collective

In Collective il regista tedesco Alexander Nanau (nato in Romania) dimostra un talento fuori dal comune per l’ approccio cinematografico diverso da quello dei documentari televisivi convenzionali di carattere
investigativo. Riesce ad imprimere la suspence alla realtà, intervallandola con racconti di cronaca più pacati quando intervista sopravvissuti e loro familiari all’incendio divampato il 30 ottobre 2015 al Colectiv Club, un locale di Bucarest privo di uscite di emergenza. Muoiono 27 giovani e 180 rimangono feriti (di cui quasi 90 in condizioni critiche) e il governo rumeno promette che saranno curati “come sarebbero curati in Germania”. Lentamente ma inesorabilmente, invece, parte dei ricoverati muore. I giornalisti Catalin Tolontan, Mirela Neag e Răzvan Lutac decidono di indagare sulla vicenda, scoprendo che i degenti “sono stati tenuti in un ambiente non sanificato ed esposto a uno dei batteri nosocomiali più resistenti in Europa (pseudomonas aeruginosa)”. A seguito di tale informazione, il trio della Sports Gazette scopre che i disinfettanti forniti a 350 ospedali (e 2000 sale operatorie) dal fabbricante Hexi Pharma vengono diluiti fino a dieci volte la dose normale dopo la consegna. Una pratica che nasconde la corruzione a vari livelli, i meccanismi di elusione fiscale e le coperture segrete da parte dello Stato, che da tempo è al corrente di tale procedura.

Mentre Collective ti avvince narrando una terribile realtà che la politica crea in vari paesi, mai come vedendo Corpus Christi si deve riconoscere che la potenza ammaliatrice di un film non dipende da ciò che racconta, ma da recitazione e regia. E, da questo punto di vista, il premio, fra i due, lo merita Corpus Christi. Magari, come si dice, fra i due litiganti il terzo gode. Ovvero il terzo film che concorre al LUX award, Another Round, di Thomas Vinterberg, che ha già vinto l’Oscar per il miglior film internazionale.

Il calcio storico fiorentino rinnova il costume della capogruppo delle Madonne.

Il calcio storico e la sua storia

Uno degli spettacoli capaci in maggior misura di descrivere la “fiorentinità” è senza dubbio il Calcio in Costume. Si ispira alla Storia della città, alla moda rinascimentale, ad un attaccamento alla tradizione che ha permesso una rievocazione puntuale di come si svolgeva questo sport.

Quella che i calcianti giocano ogni 24 giugno nella suggestiva e affollata Piazza Santa Croce riproduce la partita giocata il 17 febbraio 1530, durante l’assedio della città da parte delle truppe dell’imperatore Carlo V, chiamato dal Papa Clemente VII per ripristinare il governo dei Medici, cacciati dalla città in seguito a rivolte popolari.

I Fiorentini, affamati da più di 6 mesi di assedio, decisero di …farsi una partita in Piazza Santa Croce, sotto gli occhi delle truppe schierate sulle colline circostanti. Una dimostrazione di fierezza, un’azione beffarda di sfida all’Imperatore.

Che cosa è cambiato

Ogni anno la partita è preceduta dal Corteo Storico in Costume. Infatti i giocatori del Rinascimento erano selezionati fra le famiglie nobili ed indossavano fastosi costumi, degni ancor oggi di essere mostrati.

Agli anni ’80 risale l’introduzione in Corteo delle Madonne Fiorentine, che indossano abiti ispirati ai quadri di personaggi rinascimentali illustri e influenti a Firenze. L’abito della Capogruppo delle Madonne fiorentine è quello de ‘La Bella di Tiziano’, sconosciuta nobildonna raffigurata da Tiziano in un quadro della metà del Cinquecento, oggi esposto alla Galleria Palatina. 

Un progetto in tempo di Covid

Ed è a proposito di questo abito che si è risvegliata una nuova sfida “fiorentina”, in un periodo che molti, a causa del Covid 19, definiscono di guerra: realizzare una nuova versione dell’abito de ‘La Bella di Tiziano’, da sostituire al costume omologo, che nel tempo aveva subito parecchi rimaneggiamenti. Si può parlare di sfida perché alle capacità sartoriali delle artigiane doveva unirsi “l’attinenza filologica dei materiali e delle tecniche di realizzazione”, come affermato da Filippo Giovannelli, Direttore del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina e del Calcio Storico Fiorentino

Allo scopo è stato creato, nello spazio NOTA, un corso di sartoria, della durata di 40 ore, tenuto dalla docente di sartoria storica Vittoria Valzania e rivolto a sarte desiderose di apprendere tecniche antiche. Il progetto, sostenuto da Fondazione Cassa di Risparmio con altre fondazioni bancarie, OMA e NOTA, ha voluto porre attenzione al comparto artigiano, così gravemente colpito, permettendo a dieci esponenti di esprimere la loro professionalità e, nel contempo, avvicinarsi a nuove pratiche.

Non è stato un semplice rifacimento dell’abito cucito oltre trent’anni fa. Il nuovo ha migliore vestibilità, un tessuto più leggero, uno stile  più armonizzato con gli abiti delle altre Madonne fiorentine del Corteo.

Riccardo Penko, figlio di Paolo, ha prodotto gli orecchini, in argento dorato, realizzati completamente a mano, secondo le antiche tecniche della tradizione orafa fiorentina.  La forma dell’orecchino richiama quella de ‘La Bella di Tiziano’. Il giovane e bravo orafo vi ha aggiunto, sulla faccia posteriore, un fiore traforato ben augurante. La cintura in stoffa è stata reinterpretata, introducendo lungo l’intreccio dei velluti sette cerchi dorati e traforati con motivi geometrici ispirati al Rinascimento, uno diverso dall’altro, per impreziosire l’importante accessorio.

Ricadute del progetto sui giovani artigiani

Alla presentazione ad autorità e giornalisti dell’abito finito, pronto per la donazione, Oliva Scaramuzzi, Consigliera di Fondazione CR Firenze, ha detto “La donazione di quest’abito acquista oggi un significato importante di valorizzazione delle tradizioni popolari in un momento in cui la pandemia ha limitato le manifestazioni rievocative della memoria storica. Questa iniziativa è stata un’occasione importante di specializzazione sul tema della sartoria. È anche il segnale di un efficace lavoro di squadra fra le varie realtà del territorio per dare opportunità lavorative ai giovani. Siamo infatti consapevoli che il valore del nostro passato unito alla creatività propria delle nuove generazioni riesce a tramandare quella bellezza del fatto a mano che è una delle grandi risorse per la rinascita del Paese”.

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La Bella di Tiziano

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Abito Madonna, spazio NOTA. ph. Stefano Casati

32mo Trieste Film Festival

Doppio premio a Otac (Padre), dramma contemporaneo

L’unico film ad aver collezionato due premi è stato il lungometraggio Otac (Padre). Per il CEI (Central European Initiative ) era  il film della sezione che meglio interpreta la realtà contemporanea. Anche il pubblico, coinvolto quest’anno come giuria, e molto numeroso per la modalità on-line del Festival, gli ha attribuito il primo premio dei lungometraggi.

Cosa comporta la povertà vera

Otac, di  Srdan Golubovic, (Serbia, Francia, Germania, Croazia, Slovenia, Bosnia-Herzegovina, 2020 ), già proiettato a Berlino nel 2020, è di grande attualità per la descrizione di cosa è la povertà vera. Uno stato di totale fragilità ed impotenza. Che ti toglie la capacità di ribellarti e la coscienza dei tuoi diritti. Ti licenziano senza neppure darti tutti i soldi che ti spettano. Se li hai richiesti e non te li hanno dati, capisci di essere senza difese.

Cosa fare

Nikola, il padre del titolo, in un’eccellente interpretazione di Goran Bogdan, pensa allora che l’unica risorsa che ha è il suo corpo, che non richiede soldi per azionarsi. E si incammina a piedi verso Belgrado, distante 300 km dalla cittadina serba in cui vive, per consegnare nelle mani del ministro la richiesta di riavere i suoi due figli, che gli sono stati tolti perché giudicato troppo povero per offrire loro un ambiente di vita dignitoso. Il buon senso direbbe che i Servizi sociali locali ti aiutino a cercare un lavoro o a recuperare il salario non pagato. E invece sono in mano a un direttore violento e corrotto: gli è facile “tenere sotto” il povero che lavora occasionalmente.

Ecco perché Nikola intraprende questo immane viaggio, durante il quale il suo corpo cede più volte, per mancanza di cibo e di energia. Gli dedica attenzione solo la stampa, intervistandolo per questa impresa eroica, dopodiché le istituzioni lo ricevono, ma solo per salvare le apparenze.

Una narrazione efficace

Una sottile, continua suspence è mantenuta, fotogramma dopo fotogramma, da Golubovic, regista quarantottenne, già premiato a Berlino dalla Giuria Ecumenica nella sezione Forum col suo precedente  lungometraggio, Circles. Narratore assai efficace di un’epopea che già dalla sfilza di nazioni che hanno contribuito a produrre questo film, racconta della globalizzazione della povertà in una zona d’Europa dove le continue guerre hanno avuto, fra le conseguenze, una drastica riduzione dei posti di lavoro. Una situazione destinata a durare, visto l’imperversare della pandemia.

 

Numeri ad arte alle Gallerie degli Uffizi

Ripropongo un articolo scritto due anni fa perché

    • Molte notizie hanno valore anche a distanza di tempo
    • Questo articolo ha un valore scaramantico, un augurio che torni ad essere interessante evitare le code.
    • Due buoni motivi per iniziare un mio blog, contrario all’usa e getta

Entrare agli Uffizi senza stare in coda per ore ed ore?

Possibile? Udite udite: la coda, che era ormai accettata come una consuetudine, è allo studio per essere eliminata. Siamo alla prima vittoria sul campo, avvenuta l’ultima domenica di settembre, anno 2018, giornata di accesso gratuito al museo in alta stagione. Quella tradizionalmente è una giornata di afflusso critico di persone. Ben 7.561 visitatori si sono presentati alla porta della Galleria (+10.35% rispetto ai 6.852 della prima domenica di settembre), ma tutti sono entrati senza rimanere in coda.

Il sistema è basato sulla consegna di un tagliando.

È emesso da chioschi interattivi posizionati sotto il loggiato degli Uffizi, che, al momento dell’arrivo del visitatore, gli assegna l’orario ‘giusto’ di visita durante la giornata. Ripresentandosi all’ingresso all’orario assegnato non si dovrà aspettare a lungo per riuscire ad entrare. Non si tratta di un miracolo ma di un lavoro statistico, durato due anni, elaborato dalle Gallerie degli Uffizi insieme al Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dell’Università degli studi dell’Aquila. Tiene conto di un gran numero di variabili, e va quindi testato. Con l’aiuto del trial and error, in tempi ragionevoli si arriverà ad ottenere un miglioramento, con grande vantaggio per il turismo. Senza contare che, in questo periodo di allerta antiterrorismo, eliminare le code aumenta la sicurezza.

Il biglietto ‘di bassa stagione’.

Parte il 1 novembre (dal prossimo mese fino alla fine di febbraio), e sarà di 12 euro anziché 20 per entrare agli Uffizi. Per Palazzo Pitti l’ingresso sarà a 10 euro anziché 16. Sempre a Palazzo Pitti, (dove già sono attivi sconti per chi compra il ticket di accesso prima delle 9 ed accede entro le 9.25), è in arrivo a partire dallo stesso giorno un’altra agevolazione. Fino al 28 febbraio ci saranno riduzioni anche per le visite pomeridiane il mercoledì, per chi entra dopo le 15, con un taglio del 50%. Il costo sarà dunque 5 euro anziché 10, oppure 2,50 invece di 5 per gli aventi diritto a riduzioni.

Passepartout Family

Esiste già il passepartout annuale ad accesso completo negli spazi di visita di tutto il complesso (Uffizi, Palazzo Pitti, giardino di Boboli) che, al prezzo di 70 euro, garantisce ingresso illimitato e prioritario per 365 giorni. Alla carta individuale si aggiunge il passepartout ‘Family’: due adulti, insieme ad un numero illimitato di bambini, avranno diritto alle stesse condizioni di ingresso, ma al costo di 100 euro anziché 140 come avverrebbe nel caso dell’acquisto di due card singole. Restano comunque attive le promozioni ‘classiche’ delle Gallerie: l’abbonamento annuale ai soli Uffizi a 50 euro, quello per Palazzo Pitti a 35, la card per il giardino di Boboli a 25.

All’approssimarsi del Natale queste informazioni possono suggerire più di un regalo, oltre che gradito, di sicura originalità.

Un milione di dollari per restauri in Palazzo Pitti

La donazione

Il sogno di Ernesto

Un teatro in laboratorio

Dopo il Museo, creato nel 2018 in via Porta Rossa a Firenze dal Biscottificio Mattei di Prato, in occasione dei festeggiamenti dei 160 anni, anche un evento di storia vissuta, in forma teatrale, è stato pensato per l’anniversario della fondazione. L’idea di trasformare in teatro lo storico laboratorio, rimasto nella stessa sede dalla fondazione, è venuta a Letizia Pandolfini, appartenente alla terza generazione dei nuovi proprietari, succeduti ai Mattei agli inizi del 900 senza cambiare, per le rinomate specialità dolciarie, il nome dell’inventore. Si assiste alla rievocazione, al tempo della prima guerra mondiale, dei vissuti personali del garzone di bottega Ernesto e di sua zia, e la si realizza negli ambienti del biscottificio.

Ernesto lavora con passione, tanto che rileverà l’attività. La zia  lo ha preso a vivere e lavorare con lei quando è rimasto orfano dei genitori. La guerra porta Ernesto a  combattere  sul fronte in Trentino e la zia del pari sul fronte interno, per tenere in vita l’attività, una ricchezza di tradizioni e di cultura che riuscirà, grazie a lei, a durare, in un momento così difficile della storia d’Europa.

Come sopravvivere alla guerra

Il “sogno di Ernesto” e’ tornare alla  vita del biscottificio, a sentire le voci dei clienti e gli odori della cottura dei biscotti, a ritrovarsi le mani immerse nell’impasto e a tagliare in quel modo caratteristico, inventato da Mattei, il prodotto uscito dal forno. La zia, da parte sua,  allieta la durezza della sua vita quotidiana con la speranza che le lettere del nipote arrivino spesso. Lei capisce, leggendole, che Ernesto è aiutato a sopravvivere  dal pensiero di poter tornare al lavoro che lo rendeva felice. Anche per questo, a costo di grandi sacrifici, riesce a portare avanti l’attività.

Un modo, quello scelto, di ricostruire senza retorica e con maestria, anche grazie alla bella interpretazione  di Annamaria Guerrini e Fabio Mascagni, una storia vera  di quegli anni amari, dolce da ricordare.